Il disordine è solo una struttura che non conosciamo ancora.
I. Il gesto non è mai neutro.
Nemmeno quando è piccolo, tecnico, nascosto sotto una pila di email, nel corpo invisibile di un processo HR che sembra procedere per logica lineare. Nemmeno quando viene chiamato “ricerca”, “screening”, “short list”. Nemmeno quando la posizione è chiara, le skill sono definite, il timing è dettato da chi “ha fretta”.
Nel gesto di scegliere un nome, una voce, un corpo professionale, si agisce su un’intera architettura. Non c’è gesto più organico, più interno, più strutturante.
Eppure tutto, nel linguaggio aziendale, tende a minimizzare. A chiudere. A far sembrare la selezione una sequenza controllabile. Un filtro. Un algoritmo. Una risposta a una domanda già formulata.
Ma se osservassimo l’organizzazione come si osserva un’opera di Pollock, scopriremmo che non c’è centro. Non c’è contorno. C’è solo un campo di tensioni, di saturazioni, di equilibri che si spostano nel momento esatto in cui vengono toccati.
E allora selezionare non è più trovare la persona giusta. È entrare nel ritmo interno del sistema. Ascoltarne i battiti imperfetti, le deformazioni, le linee taciute.
Ogni assunzione è una colatura che tocca tutto, anche ciò che sembrava lontano. Non lo si nota subito.
Ma come il colore che avanza sotto strati invisibili,la forma si muove. Il significato si ridisegna. E ciò che pareva stabile, ora vibra. Non perché fosse sbagliato, ma perché è entrato in relazione.
II. Ciò che appare stabile è solo ciò che ha imparato a mascherare il proprio movimento
Le organizzazioni parlano spesso di struttura come si parla di un edificio: piantato, fondato, ancorato a un terreno che non trema. Ma chi lavora a contatto con i meccanismi interni — con le dinamiche che accadono tra le persone, non sopra di loro — sa bene che non esiste stabilità. Esiste solo capacità di adattare le tensioni.
Una cultura aziendale, quando è viva, non è coerenza: è coesistenza di spinte. È la pazienza delle differenze che convivono. È l’asimmetria che non esplode. È la direzione che si ridefinisce silenziosamente ogni volta che qualcuno entra in una stanza, ogni volta che un nuovo profilo si aggiunge all’organigramma, ogni volta che una voce viene ascoltata — o esclusa.
Ciò che sembra solido è, quasi sempre, solo ciò che ha avuto il tempo e la convenienza di dare l’impressione di esserlo. Ma sotto, il ritmo continua. Come in un’opera di Pollock, ciò che affiora non è mai un contorno netto. È la memoria stratificata del gesto. Il segno della pressione esercitata da chi c’era prima, il peso cromatico della cultura attuale, la tensione sottile lasciata dal nuovo.
Selezionare, allora, non è misurare la tenuta della struttura. È comprendere quanto movimento essa è disposta a tollerare. Quanto cambiamento può assorbire senza disfarsi. Quanta complessità può sostenere senza proteggersi nel rigetto.
Le imprese che selezionano pensando di conservare la forma, non fanno che prolungare una versione superata di sé stesse. Quelle che selezionano per espandere il proprio campo relazionale, invece, non cercano profili: cercano tensione sostenibile.
III. Prima della forma: l’accordo silenzioso tra struttura e soggettività
Esiste un momento, nel processo selettivo, che non ha ancora nome. Un momento in cui non è stato detto nulla, nessuna competenza è stata presentata, nessuna storia è ancora emersa. È prima dell’introduzione, prima del briefing, prima del primo sguardo codificato come professionale.
Ed è proprio lì che accade la cosa più importante: una vibrazione strutturale. Un’eco che anticipa la parola. Un accordo silenzioso tra ciò che l’organizzazione è — nella sua tensione reale, non in ciò che dice di essere — e ciò che la persona porta — anche senza saperlo.
Questo momento non è visibile, né misurabile. Non è psicometrico. Non è tecnico. È compositivo.
Come quando osservi una tela di Pollock: c’è una fase in cui l’occhio non cerca più un soggetto. Sente solo se il movimento ha senso. Se il gesto aggiunto non rompe il tutto, ma lo intensifica.
Nella selezione verticale, il selezionatore opera proprio lì: non cerca una somiglianza. Cerca una curvatura compatibile. Un tipo di presenza che, una volta dentro, non venga assorbita, ma nemmeno rigettata.
Le compatibilità profonde non sono affinità valoriali. Sono intersezioni tra pressioni: la pressione del sistema che spinge per restare uguale e quella del soggetto che porta un’irregolarità fertile.
Non serve un candidato “giusto”. Serve un candidato che interferisca senza rompere. Che rompa, se serve. Ma che sia, nel gesto della sua presenza, parte di una figura ancora da completare.
E questo — non si trova. Si riconosce.
IV. La selezione non chiude: compone
C’è una confusione semantica diffusa nel lessico HR: quella che attribuisce alla selezione il compito di “riempire”, di “concludere”, di “coprire una posizione vacante”. Come se l’organizzazione fosse un contenitore, e il candidato un volume esatto da colmare. Ma chi lavora davvero nella tensione strutturale dell’impresa sa che non si riempie. Si compone.
La selezione, se è verticale, non è risoluzione. È disegno in tensione. Un atto formale nel senso più pieno del termine: non un gesto estetico, ma un gesto che genera forma.
Pollock non inizia con un progetto. Inizia con un ritmo, con una traiettoria, con un’urgenza. E il quadro si compone nel tempo. Non emerge un soggetto, ma una coerenza interna, un’armonia che tiene insieme gesti che non si spiegano da soli.
Selezionare è lo stesso: non si cerca una figura ideale, ma una presenza che tenga, una persona che, una volta dentro, non “si adatti”, ma contribuisca a disegnare una figura che ancora non esiste.
Ogni processo selettivo è una scelta di direzione compositiva. Ogni short list è già un gesto formale. Ogni profilo portato in valutazione è una forza organizzativa ipotetica che viene testata contro la struttura reale, non contro la descrizione ufficiale del ruolo.
Ecco perché un selezionatore non dovrebbe mai chiedersi: “È il più competente?” Ma piuttosto: “Cosa genera questo profilo dentro la nostra composizione?”
Perché non si tratta di trovare qualcuno che corrisponda. Ma qualcuno che risuoni.
V. Lo spazio che resta
In una tela di Pollock, non si sa mai dove guardare. Non perché manchi un centro, ma perché ogni punto può diventarlo. E nel tempo della visione, ciò che non c’era acquista rilevanza. Una macchia diventa direzione. Una colatura diventa ritmo. Una zona vuota, improvvisamente, diventa silenzio organizzatore.
Anche nella selezione, se condotta in profondità, accade lo stesso. Il selezionatore strategico non impone una soluzione. Prepara uno spazio. Accoglie una variazione. Attiva una condizione perché qualcosa emerga che prima non era pensabile.
In molti casi, l’intuizione più potente non sta nel candidato scelto, ma nel tipo di vuoto che quel candidato mette in luce. Lì si apre un campo di possibilità nuove. Lì si ridisegnano le priorità. Lì — spesso per la prima volta — l’organizzazione si guarda senza maschera.
Una buona selezione lascia tracce. Una selezione eccellente, invece, lascia spazi. Silenziosi. Operativi. Pronti a essere abitati da strutture nuove.
È facile accorgersi di un’assunzione che funziona. Ma è molto più raro riconoscere il valore di quella che non è stata ancora fatta, ma che ha già modificato il modo in cui l’azienda si pensa.
Perché anche una posizione lasciata aperta, può diventare una parte della forma.
VI. L’architetto che non firma
Nessuno entra in azienda perché qualcuno ha letto bene il CV. Ci si inserisce perché, in un momento preciso, un gesto ha disegnato una possibilità nuova. Quel gesto è quasi sempre invisibile. Nessuno lo ricorderà. Nessuno lo celebrerà. Ma è lì che nasce la forma.
Il selezionatore che lavora davvero a livello verticale non cerca profili. Crea giunzioni. Lascia punti di contatto tra la struttura reale — quella fatta di desideri taciuti, urgenze mal dichiarate, resistenze strutturali — e il mondo che arriva da fuori. Il gesto della selezione è architettonico. Non costruisce un edificio, ma una condizione spaziale. Una geometria possibile, dentro cui far accadere relazioni nuove.
L’errore è pensare che il selezionatore sia un interprete. Non interpreta. Predispone. Non raccoglie segnali, li lascia incrociare. Non cerca stabilità: cerca tensione sostenibile. Non chiude. Ascolta il punto in cui può emergere una forma diversa, senza che l’intera impalcatura crolli.
Come un architetto del vuoto, come chi lavora con la luce e con il peso dell’aria, chi seleziona davvero sa che il proprio contributo non si vede. Si sente. Nel modo in cui il team si muove dopo. Nel modo in cui la leadership cambia tono. Nel modo in cui, senza saperlo, l’organizzazione ha già cambiato geometria.
VII. La forma che non si lascia concludere
Nella selezione, come nell’arte, il momento più vero non coincide con il gesto, ma con ciò che rimane dopo. È qualcosa che non si firma e non si archivia, ma si percepisce nel modo in cui la struttura inizia a comportarsi diversamente: un silenzio che cambia frequenza, un progetto che prende una direzione imprevista, una tensione che, invece di esplodere, si integra in una nuova linea interna. Non è la scelta in sé a contare — è la forma che da quella scelta comincia a emergere, spesso senza nome, spesso senza che nessuno la chiami davvero trasformazione.
Davanti a una tela di Pollock accade lo stesso: lo sguardo cerca un centro, un senso, una narrazione, ma nulla lo accontenta. E così è costretto a rallentare. A cedere. Non si può interpretare quel che non si lascia chiudere. Si può solo restare nella composizione, finché non ci si accorge che la forma non sta nell’immagine, ma in ciò che la nostra attenzione ha cominciato a ordinare dentro di sé.
Così funziona anche il lavoro profondo di chi seleziona non per funzione, ma per intenzione. Il valore non sta nel profilo scelto, né nella risposta che dà al ruolo. Sta nella vibrazione che imprime al sistema. Nel modo in cui costringe l’impresa a riorganizzare il proprio spazio, i propri vincoli, i propri margini. Il selezionatore consapevole (e verticale) non mette un punto. Predispone una condizione affinché una figura, ancora irrisolta, trovi spazio per apparire.
Come nello sguardo che si posa sulla tela, e non trova soluzione. Ma comincia a vedere.
VIII. Dove comincia il nostro gesto
In Selèct non acceleriamo. Non normalizziamo. Non cerchiamo “candidati migliori”.
Cerchiamo professionisti che disegnino tensioni compatibili con la forma viva dell’organizzazione. Che abbiano un passo interno coerente con lo spazio che l’impresa è pronta a riscrivere. Selezionare, per noi, non è occupare. È comporre.